12.9.08

Blob in Italy

Spergiuri, fedeli traditori, religiosi imprecatori, fanatici, originali imitatori, perbenisti: con Made in Italy va in scena la demolizione dell’alta considerazione in cui manteniamo il nostro “Bel Paese”; e sarebbe ancora assurdo ridurre a irrilevanti aggettivi le innumerevoli sfaccettature dell’ipocrisia italiana materializzate sul palco con tanta forza. “Raccontare come tutta una serie di luoghi comuni, di cose che sentiamo tutti i giorni per la strada e che tante volte, per disattenzione o per noia, ci passano inosservate, tutti vicini e condensati riescano a darci uno spaccato forte di quello che siamo” (Enrico Castellani). Novelli Adamo ed Eva giurano su tutto e sul contrario di tutto, mentre dietro di loro la mela Macintosh di tubi luminosi li fa risplendere al bagliore del loro peccato già compiuto; sono nudi e, coprendosi, hanno già conosciuto le loro vergogne, ma giurano, eretti e fieri, si direbbe consciamente perseveranti nell’errore e tuttavia orgogliosi, orgogliosi di sé, di ciò su cui giurano e spergiurano: ipocriti. Le voci galoppano all’unisono, non interpretano, ma spezzano il periodo in maniera innaturale, non gli danno tono; al contempo, però, le frasi affastellate le une alle altre, accumulate e sovrapposte all’immagine sul palco esplodono di significati, suggestioni e di cinismo sferzante. “L’idea è quella di un costruire un blob teatrale che condensando ciò che ci scivola via invece riesca a riacquistare forza perché a teatro sei costretto a sentire ciò che proponiamo sul palco e non sei bombardato da mille altre cose” (E.C.); Babilonia teatri lavora con materiali preesistenti, li pesca nel fiume di parole silenziose del mondo globalizzato, le taglia, le accosta, in un efficacissima opera di montaggio teatrale preciso e raffinato: è la post-produzione di Nicolas Bourriaud dove il senso è nella sovrapposizione, nel rispettivo confronto di materiali che l’opera unisce. In posizione di start, gli attori fanno correre i loro discorsi cadenzati e si passano la parola: se da una parte si sbraita contro “froci de merda e maruchini de merda”, dall’altra il perbenismo se la prende contro gli stranieri che bestemmiano in italiano “ché il Papa è nostro e la bestemmia pure”; il ritmo cresce nell’eloquio e negli scambi di parola finché i due discorsi iniziano ad inserirsi l’uno nell’altro e a diventare uno solo, quando gli improperi a Dio sembrano rivolti a Lui, ai marocchini, ai froci, al pubblico, a tutti e a nessuno, perché divenuti puro intercalare privo di senso, significante posto a scandire il palpito della frase. Sono musicalità e ritmo, infatti, come in ogni opera di montaggio, ad arricchire le immagini di senso. Inserito in una prospettiva di questo tipo, ogni particolare dello spettacolo deve essere, ed è, calcolato in ogni minimo dettaglio, nulla può essere lasciato al caso o all’improvvisazione. Ma consci dell’artificiosità, che facilmente può emergere a tali condizioni, con un conseguente abbassamento di spontaneità ed energia, gli attori, da un lato, esasperano l’artificio con una recitazione straniata e intersecando immagini in apparente nonsenso; dall’altro, sporcano l’accurata costruzione non solo svelando il gioco teatrale (si vestono e svestono in scena) ma inserendolo nello spettacolo come elemento disturbante: infatti, oltre ad essere presenti in scena mixer audio, luci e carrucole, più volte il tecnico entra in scena ed ostruisce lo sguardo del pubblico posizionandosi al centro a togliere alcuni fari o a sistemarne altri, finché non diventa esso stesso “attore alieno” che, mantenendo il suo ruolo di “tecnico per i movimenti di scena”, vestito da angelo con le ali di cartone, scandisce la parole di una canzonetta d’amore. La critica batte a tappeto tutte le contraddizioni, idiosincrasie, frenastenie del nostro tempo: dagli scimmiottanti balli di gruppo, dall’eccessivo ed insensato delirio sportivo (che, inconciliabile con la realtà dei fatti, afferma “IO STO BENE”), fino ai traboccanti cerimoniali per il funerale di una nazionale star internazionale con frecce tricolori annesse. Quella di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani è una critica che si proclama “sovrabbondante di suggestioni, ma priva di soluzioni”, per una morale che, consapevole di esser parte del panorama rappresentato, vuole evitare il moralismo: “facciamo una fotografia: scegliamo il punto di vista, l'angolatura, ma non vogliamo giudicare. E l'accumulo nasce proprio dalla volontà di non giudicare” (Valeria Raimondi); in realtà la fotografia muore col montaggio, e il solo fatto di appoggiare l’estetica della post-produzione li rende consapevoli di questo: l’effetto di senso che producono è poco equivocabile, il giudizio c’è, senza soluzione. Il peso dell’essere inseriti come piccola realtà nel mondo contraddittorio, idiosincratico, frenastenico, si percepisce tutto nell’ultima scena, dove delegano la parola a piccoli nani da giardino; ma la stessa scena, nella sua sibillina realizzazione, mantiene la critica più forte dello spettacolo: il pubblico, che con il riso, durante tutto lo spettacolo, si è tirato fuori da quell’Italia raccontata sul palco, alla fine se ne scopre parte fondante nel bisogno di catalogare, ordinare, dare un etichetta anche al non senso. È un finale amaro, un finale a metà, che fa percepire in tutta la sua forza impellente la realtà di Made in Italy.
Matteo Vallorani
Babilonia Teatri Made in Italy Premio Scenario 2007 di e con Valeria Raimondi ed Enrico Castellani scene Babilonia Teatri/Gianni Volpe costumi Franca Piccoli luci e audio Ilaria Dalle Donne movimenti di scena Luca Scotton coproduzione Operaestate Festival Veneto con il sostegno di Viva Opera Circus/Teatro dell'Angelo

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