20.9.08

Don Chisciotte varietà

«C’è sempre qualcuno più matto di noi che ci fa sentire normali!»: nell’intreccio tra malattia e sanità mentale, il Don Chisciotte, proposto da Synergie teatrali, ci presenta una follia fanciullesca, libera, contro la presunzione ottusa di assennatezza, da parte di una società assurda. Uno spettacolo, il secondo di questa compagnia all’interno del quattordicesimo Incontro Nazionale dei Teatri Invisibili, che unisce sinergicamente teatro ed avanspettacolo: scenografie sfavillanti, colpi di scena, musiche scoppiettanti, luci della ribalta in opere della letteratura classica mondiale; storie d’amore in varietà, drammi cabaret, con un forte impatto visivo per un pubblico dei giorni nostri. Sul palco risplendono luci e nastrini di un locale d’avanspettacolo che attende l’attore protagonista; lo spettatore da subito viene investito dalla fisicità degli attori, da balletti esuberanti e dall’euforia dell’uomo da palcoscenico: l’attore folle che entra dalla platea e crede di essere Don Chisciotte. Il direttore del cabaret, non curante dell’insania dell’uomo, vedendolo come fonte di guadagno, non fa che assecondarlo, non solo facendogli credere che il locale sia la Mancha e che una Mini sgangherata sia il suo Ronzinante, ma anche costringendo gli altri attori a presentarsi a lui come personaggi e non come attori: così il caratterista è Sancho Panza, la soubrette diventa Dulcinea e la star decaduta impersona il suo nemico prediletto. Ma d’altra parte questo attore/Don Chisciotte sembra piegarsi perfettamente ai giochi teatrali del varietà: non si comprende mai se quella del protagonista sia una lucida pazzia o se egli sia effettivamente perso totalmente nei meandri della mente dell’ultimo hidalgo; finché la pazzia stessa non viene esasperata, provocata all’eccesso da tutti i personaggi, in un crescendo di tensione che si risolve nel duello finale. Viene messa in scena una geniale idea per un classico senza tempo, come quello di Cervantes, mostrando il sogno affascinante che è il teatro, nella sua ingenua ma autentica, puerile follia, in contrasto con le crudeli regole di un mondo che nasconde la sua mostruosità dietro sorrisi e lustrini. Lo spettacolo, seconda produzione del Teatro Ventidio Basso, è un susseguirsi di sketch cabarettistici, tra la rappresentazione comica di un Don Chisciotte moderno e quella grottesca del “dietro le quinte”: la sceneggiatura stessa, pur essendo per la maggior parte originale, ruba a piene mani nelle “orazioni” più famose del romanzo. Il gioco teatrale è “falsamente” svelato: anche se gli attori stessi si proclamano tali e anche se palesemente si mette in scena uno spettacolo, gli attori rimangono fino alla fine personaggi, personaggi-attori che mettono in scena il loro spettacolo. Ciò è sottolineato soprattutto dalla scenografia di Pino Prosciutti, dai camerini e gli specchi con le lampadine ad incandescenza a vista, ai costumi, carichi delle loro paillette e dei piumaggi, che non solo vengono indossati dagli attori, ma, appesi in scena, creano una sorta di palco-arena. La funzionalità di questa composizione risiede soprattutto nell’aver contrassegnato e diviso i registri: differenziando e frazionando il palco in un sopra e un sotto, un dietro e un avanti, nonostante lo spettatore sia investito da un turbinio di stimoli, riesce sempre a riprendere le redini della storia. Quello che Synergie Teatrali riesce a fare è appassionare una grande quantità di pubblico al teatro, come dimostrano le platee piene e gli scroscianti applausi, puntuali alla fine dello spettacolo. Le musiche utilizzate sono quelle che fanno da sfondo all’immaginario collettivo multimedializzato, la follia, le luci a tubo dei negozi, i retroscena piccanti del mondo dello spettacolo: il Don Chisciotte è una piece per il pubblico dei giorni nostri, e ben venga se è capace di avvicinarlo a temi importanti e ai sistemi comunicativi del teatro; anche se c’è sempre qualcuno più intelligente di noi che ci fa sentire stupidi.
Carlo Benigni
Synergie Teatrali Don Chisciotte con Stefano Artissunch, Alessandro Marinelli, Alessia Bedini, Gian Paolo Valentini, Piergiorgio Cinì, Stefano De Bernardin scene Pino Prosciutti costumi Claudia Ciotti organizzazione Danila Celani

19.9.08

Il sogno del prigioniero

Siamo a Robben Island, l’isoletta sudafricana utilizzata come luogo di segregazione e prigionia sin dal XVII secolo, tristemente nota per essere diventata negli anni dell’apartheid l’atroce residenza di chi contestava il regime. Potremmo tuttavia trovarci in qualsiasi punto della Storia, in qualsiasi luogo del mondo in cui un governo violento e intollerante prenda il potere e si eserciti a giocare con i diritti e la dignità degli uomini. L’isola è un dramma sulla discriminazione, sull’esilio, sulla prigionia politica nel Sudafrica dell’apartheid, ma diventa universale nel momento in cui dirige uno sguardo acutissimo negli angoli in cui la libertà negata si fa libertà rivendicata e prende forme e colori insperati. Opera di Athol Fugard, il maggiore drammaturgo sudafricano, autore di drammi delicati e di grande potenza espressiva, L’isola appartiene ai cosiddetti “statement plays”, scritti nei primi anni Settanta. In quegli anni Fugard lavora a stretto contatto con John Kani e Winston Nshtona, attori della compagnia dei Serpent Players, studiando a fondo le potenzialità drammaturgiche dell’improvvisazione. I testi composti nel corso di queste feconde esperienze possiedono nella forma una freschezza rara e la leggerezza ideale per veicolare le violente critiche dirette alle leggi dell’apartheid, conservando l’immediatezza della creazione estemporanea e guidando la recitazione verso una sincerità che s’abbatte sul pubblico con una forza prorompente. Sincera è infatti la messa in scena de L’isola diretta da Marta Gilmore, sincera nella semplicità dei mezzi espressivi, sincera nei gesti e nei toni degli attori, sincera negli intenti. Isola Teatro nasce nel 2004 con la regia di questo testo, da cui prende il nome facendone il manifesto della propria poetica: «La compagnia si propone di portare avanti un percorso di ricerca teatrale che utilizzi le metodologie, i contenuti e i testi del teatro contemporaneo mondiale, mantenendo al contempo un dialogo vitale con i classici della letteratura, della poesia e del teatro, con i fantasmi della memoria collettiva ed individuale, e con l’intima e inesauribile domanda di dignità che la storia di ogni essere umano porta con sé». L’azione comincia con una corsa a perdifiato a segnare un cerchio, poi un altro e un altro ancora. Si corre fino allo sfinimento intorno al nucleo dell’azione, intorno alla pedana rialzata che è la cella del carcere, che è l’isola, la prigione. Stiamo per assistere a un frammento della vita di John e Winston, compagni di cella, stiamo per osservare la loro vita di prigionieri, umiliante e dolorosa. Le loro esistenze sono state appaiate per caso, per caso sono essi stati destinati alla convivenza, allo scambio di ricordi e pensieri. Oscar De Summa e Armando Iovino prestano il corpo e la voce ai reclusi, delineando i tratti di un amicizia autentica e disperata che si scontra con le pareti ristrette della stanza, urtando senza posa contro le ingiustizie dello Stato e contro i confini della propria libertà. Eppure, nello smarrimento dell’esilio, John trova il modo di riscattare la propria condizione, coinvolgendo Winston in un progetto che ha il sapore di una grande metafora. L’Antigone di Sofocle, messa in scena dai due detenuti, diventa un inno alla libertà in cui la recita nella recita si rivolge «ad un pubblico immaginario di detenuti e secondini, coinvolgendo loro e noi in una rappresentazione del processo tra lo Stato - il re Creonte - e la ribelle Antigone, che è anche una critica in farsa del regime dell’apartheid. Come nella tragedia greca, in cui il teatro era un rito collettivo che sanciva l’appartenenza comune alla città, John/Creonte e Winston/Antigone riescono a condividere la propria condizione con gli altri condannati e insieme a sfidare l’apartheid e le sue ben più gravi farse» (Marta Gilmore). Basta una coperta utilizzata come sipario e alcuni oggetti riadattati: la magia del teatro si ritaglia un angolo di libertà nel luogo dove la libertà è stata cancellata. Il sogno del prigioniero di Montale, che inventa «iridi su orizzonti di ragnateli / e petali sui tralicci delle inferriate» pare qui trovare la sua migliore concretizzazione.
Alessandra Cava
Isola Teatro L'isola di Athol Fugard, John Kani, Winston Ntshona con Oscar De Summa e Armando Iovino disegno luci Luca Barbati musiche Soweto String Quartet, Hugh Masekela, Peter Tosh aiuto regia Daniela Capece regia e traduzione Marta Gilmore

14.9.08

Verso il deserto del reale

Displaced Landscapes: paesaggi spostati, sostituiti, sottratti al reale. Mancanti e di cui si sente la mancanza: paesaggi assenti, di cui ci assale un’infinita nostalgia, ché il simulacro, il riflesso, la ri-produzione imposta al loro posto, è vuota d’ogni autenticità vitale, umana. ‘O zoo nô ci propone uno spettacolo ibrido, che coniuga sapientemente la parola, la danza, la video-arte e la musica, con l’intento di spingere la riflessione verso il deserto dell’ odierno, apocalitticamente “purificato” da ogni residuo di reale. Proiezioni di volti ci accolgono sulla scena. Per Gilles Deleuze “un volto è la complementarietà di un’unità riflettente e riflessiva e di micromovimenti, micromovimenti che determinano un’intensità. È questo un volto. La si chiamerà superficie di visageification”. A questa superficie si fa riferimento nell'esposizione di volti spontanei e concreti, segnati da sorrisi sgraziati o cipigli rugosi; infinitamente espressivi, emozionabili ed emozionanti. Il volto è un paesaggio e come tale viene deturpato: d’improvviso appaiono le facce dell’industria culturale, le pelli levigate, le espressioni modellate. Facce vere, ma non più reali; modificate, falsificate, identiche a se stesse, paralizzate. Ogni faccia è creata a immagine di qualcosa d’altro, di un sogno, è ricercata e contraffatta in vista di un fine: tutto questo gli rimane addosso, come un segno di ciò che manca. L’immaginario sfonda la parete del reale. È il vuoto. Ora le immagini che si susseguono sono quelle degli umani artificialmente riprodotti: la pelle è silicone, fili di plastica per capelli, occhi di vetro. Nei musi delle bambole, nei grugni dei droidi c’è tutta la malinconia del vuoto lasciato dal reale. La caduta del confine tra il reale e il virtuale è il loro annientamento: il sogno, l’immagine che ha pretesa di esistenza annulla la sostanza concreta alla quale essa stessa voleva inerire. È il senso di mancanza a trionfare in questo crescente annientamento della "visageification", il senso di vuoto che si estende allo spazio, al luogo, ci accompagna nelle atmosfere sospese delle tele di Hopper o in quelle desolate delle spiagge d'inverno: luoghi dell’irrealtà in cui un automa danzante si addentra, relazionandosi con aria attonita all’ambiente, ostentando una naturalezza artificiosa che non riesce a nascondere dietro ai gesti il vuoto dei sensi. Intanto un attore, seduto di spalle in un angolo del proscenio, sembra dirigere gli spostamenti del paesaggio: dalla sua posizione favorevole di oscuro demiurgo, osservatore non visto, parla di immortalità: ibernazione di teste e clonazione di corpi; corpi senza testa sembrano popolare il mondo, corpi non senzienti, morti, corpi riserve di organi, anestetizzati, carne da mattatoio bio-politico. È la guerra che nasconde nella carneficina la stessa insensibilità della finzione: grazie al diaframma dello schermo si può osservare senza essere osservati, a strage compiuta l'assassino pulisce l’obiettivo, incontaminato dalla colpa; sembra tutto finto, sembra un videogame. Il video Clean/Unclean ci mostra “Filmati di guerra registrati da sensori di armi che possono vedere nella oscurità: immagini note, certo. Operazioni chirurgiche, a freddo. Voci di presentatori televisivi [...]Le apocalissi non possono essere più commentate da voci umane. Se i satelliti sostituiscono l'occhio di Dio, allora solo più cori digitali, post-umani, possono cantare una guerra condotta attraverso schermi e sistemi di sorveglianza. I sintetizzatori vocali di Clean/Unclean, attraverso sintesi granulari e remix digitali di cori e voci ricostruiscono l'emozione negata, la violenza originaria della sensazione. Perché oltre lo schermo televisivo, oltre le lenti della telecamere c'è ancora il mondo reale”. Il “delitto perfetto" di Baudrillard è ripreso nell’assenza emozionale che ne consegue, quando neanche il valore aggiunto della violenza è sufficiente a ri-conferire realtà all’immagine. Ciò che resta è deserto, interiore ed esteriore, parte di un mondo vuoto. Torna il senso di mancanza, il bisogno di quel calore umano non artificialmente ricostruibile. Il viaggio nel deserto del video Heatseeker è un viaggio di un'attesa che risulterà sempre vana: la speranza è quella di trovare vita nei lontani residui di civiltà, la delusione è nella lenta riduzione della distanza, nel lento accorgersi di avere di fronte a sé le spoglie dell'industria della guerra. Davanti alle rovine avanza una soubrette luccicante, si regge su stampelle ornate di velluto rosso. Sulle note del Danubio blu, la sua danza ostinata e sbilenca pare l'ultima resistenza della realtà, l'ultimo balzo di un'arte mutilata, nel tentativo disperato di aggrapparsi al mondo.
Matteo Vallorani Alessandra Cava
‘O zoo nô Displaced Landscapes. Paesaggi umani e simulacri di e con Paola Chiama e Massimo Giovara immagini video e suoni Angelo Motor Comino e Visual Eyes (da Clean/Unclean e Heatseeker) musica Casey Collier, Johan Strauss, Max Giovara e Bip Gismondi, Autechre testi Gilles Deleuze, Jean Baudrillard, Apocalisse di Giovanni, Massimo Giovara coreografia Paola Chiama regia Massimo Giovara

13.9.08

La commedia degli orrori

La tragedia che ride di se stessa, la violenza funesta delle passioni che si fa ridicola e si esibisce nel suo essere grottesco e bestiale. Partendo dalla maschera dei comici dell’Arte e utilizzandola come lente deformante, dietro la quale le vicende prendono corpo, Vicolo Corto mette in scena le debolezze e le depravazioni umane in un beffardo spettacolo-crogiolo che racchiude in sé numerosi riferimenti alla storia del teatro. Dramlot è il “dramma inventato” che scaturisce dall’incontro di storie e registri diversi, dando vita a personaggi ridicoli e sgradevoli, tanto da sembrare i diretti discendenti della stirpe di Ubu. Come i giganteschi antieroi di Jarry, infatti, i protagonisti di questa Ipotesi tragica per maschera comica sono vittime dei loro capricci infantili, come burattini ottusi seguono ciecamente la propria vocazione al raggiro, alla violenza, alla vendetta. Le vicende dell’Elettra di Euripide sono alla base della storia rappresentata, ma si fondono inaspettatamente con episodi e caratteri di tragedie d’altre epoche. Così assistiamo alla comparsa di amletici fantasmi e spade avvelenate, a scene di teatro nel teatro, e mentre Clitennestra mostra una carica persuasiva e autodistruttiva degna di Lady Macbeth, Elettra si confonde con il proprio alter ego, l’algida Lavinia de Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill. Il filo rosso che congiunge queste grandi opere lontane nel tempo s’intreccia con quello coloratissimo della Commedia dell’Arte, le cui maschere, subendo fantasiose metamorfosi, si ritrovano a scimmiottare i grandi eroi tragici. Nella cameriera vezzosa e nel giardiniere rintontito riconosciamo la coppia di servi più celebre del teatro, Colombina e Arlecchino, che apre nell’azione squarci di comicità pura, spezzando qua e là la trama della vicenda. Gli stridori prodotti dalla sovrapposizione e dall’accostamento di immaginari e prospettive tanto distanti, per mezzo del riso, esorcizzano gli archetipi del vizio umano e la loro carica di miseria e di orrore, generando un cortocircuito di grande efficacia. E’ un maestoso carnevale tragico quello a cui assistiamo, di forte potenza visiva. Uno scintillio multicolore di costumi, dentro i quali i personaggi si dimenano correndo incontro al loro destino, fra il tulle luccicante e vaporoso delle vesti della regina, l’inquietante gonnella maculata del “porco Egisto”, fino ai veli impalpabili delle capricciose divinità, che compaiono all’improvviso per assistere divertite all’ecatombe finale. Una scenografia scarna e versatile completa il quadro: quattro carrucole sorreggono un vecchio telo bianco che, di volta in volta, nella penombra dei cambi di scena, guidato dagli attori, diventa il soffitto o la parete di una stanza, una coperta, un velo funebre, una scatola per ombre cinesi, una veste. Il meccanismo lascia scoperto sul fondo della scena un semplice fondale nero, decorato con finti specchi e candele, evocanti le atmosfere di fiabeschi palazzi. S’apre lì, dietro lo spazio dell’azione, un corridoio scuro in cui i personaggi si ritirano come spettatori muti, osservatori-osservati, marionette impotenti condannate ad ogni rappresentazione all’inevitabilità della tragedia. Ed è lì, in quella breve linea d’ombra, che riconosciamo il nostro riflesso, l’eco della nostra presenza in sala, la nostra speculare appartenenza alla scena degli orrori e delle risa.
Alessandra Cava Carlo Benigni
Vicolo Corto
Dramlot. Ipotesi tragica per maschera comica
con Loretta Antonella, Massimo Barbini, Francesco Giarlo, Laura Graziosi, Monia Papa, Stefano Tosoni ideazione costumi Licia Lucchese realizzazione costumi Caterina Volpato disegno luci Massimiliano Romanelli maschere Compagnia Vicolo Corto scenografia Niba & Mao duello Luca Luciani aiuto regia Manuela Massimi regia Michele Modesto Casarin

12.9.08

Blob in Italy

Spergiuri, fedeli traditori, religiosi imprecatori, fanatici, originali imitatori, perbenisti: con Made in Italy va in scena la demolizione dell’alta considerazione in cui manteniamo il nostro “Bel Paese”; e sarebbe ancora assurdo ridurre a irrilevanti aggettivi le innumerevoli sfaccettature dell’ipocrisia italiana materializzate sul palco con tanta forza. “Raccontare come tutta una serie di luoghi comuni, di cose che sentiamo tutti i giorni per la strada e che tante volte, per disattenzione o per noia, ci passano inosservate, tutti vicini e condensati riescano a darci uno spaccato forte di quello che siamo” (Enrico Castellani). Novelli Adamo ed Eva giurano su tutto e sul contrario di tutto, mentre dietro di loro la mela Macintosh di tubi luminosi li fa risplendere al bagliore del loro peccato già compiuto; sono nudi e, coprendosi, hanno già conosciuto le loro vergogne, ma giurano, eretti e fieri, si direbbe consciamente perseveranti nell’errore e tuttavia orgogliosi, orgogliosi di sé, di ciò su cui giurano e spergiurano: ipocriti. Le voci galoppano all’unisono, non interpretano, ma spezzano il periodo in maniera innaturale, non gli danno tono; al contempo, però, le frasi affastellate le une alle altre, accumulate e sovrapposte all’immagine sul palco esplodono di significati, suggestioni e di cinismo sferzante. “L’idea è quella di un costruire un blob teatrale che condensando ciò che ci scivola via invece riesca a riacquistare forza perché a teatro sei costretto a sentire ciò che proponiamo sul palco e non sei bombardato da mille altre cose” (E.C.); Babilonia teatri lavora con materiali preesistenti, li pesca nel fiume di parole silenziose del mondo globalizzato, le taglia, le accosta, in un efficacissima opera di montaggio teatrale preciso e raffinato: è la post-produzione di Nicolas Bourriaud dove il senso è nella sovrapposizione, nel rispettivo confronto di materiali che l’opera unisce. In posizione di start, gli attori fanno correre i loro discorsi cadenzati e si passano la parola: se da una parte si sbraita contro “froci de merda e maruchini de merda”, dall’altra il perbenismo se la prende contro gli stranieri che bestemmiano in italiano “ché il Papa è nostro e la bestemmia pure”; il ritmo cresce nell’eloquio e negli scambi di parola finché i due discorsi iniziano ad inserirsi l’uno nell’altro e a diventare uno solo, quando gli improperi a Dio sembrano rivolti a Lui, ai marocchini, ai froci, al pubblico, a tutti e a nessuno, perché divenuti puro intercalare privo di senso, significante posto a scandire il palpito della frase. Sono musicalità e ritmo, infatti, come in ogni opera di montaggio, ad arricchire le immagini di senso. Inserito in una prospettiva di questo tipo, ogni particolare dello spettacolo deve essere, ed è, calcolato in ogni minimo dettaglio, nulla può essere lasciato al caso o all’improvvisazione. Ma consci dell’artificiosità, che facilmente può emergere a tali condizioni, con un conseguente abbassamento di spontaneità ed energia, gli attori, da un lato, esasperano l’artificio con una recitazione straniata e intersecando immagini in apparente nonsenso; dall’altro, sporcano l’accurata costruzione non solo svelando il gioco teatrale (si vestono e svestono in scena) ma inserendolo nello spettacolo come elemento disturbante: infatti, oltre ad essere presenti in scena mixer audio, luci e carrucole, più volte il tecnico entra in scena ed ostruisce lo sguardo del pubblico posizionandosi al centro a togliere alcuni fari o a sistemarne altri, finché non diventa esso stesso “attore alieno” che, mantenendo il suo ruolo di “tecnico per i movimenti di scena”, vestito da angelo con le ali di cartone, scandisce la parole di una canzonetta d’amore. La critica batte a tappeto tutte le contraddizioni, idiosincrasie, frenastenie del nostro tempo: dagli scimmiottanti balli di gruppo, dall’eccessivo ed insensato delirio sportivo (che, inconciliabile con la realtà dei fatti, afferma “IO STO BENE”), fino ai traboccanti cerimoniali per il funerale di una nazionale star internazionale con frecce tricolori annesse. Quella di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani è una critica che si proclama “sovrabbondante di suggestioni, ma priva di soluzioni”, per una morale che, consapevole di esser parte del panorama rappresentato, vuole evitare il moralismo: “facciamo una fotografia: scegliamo il punto di vista, l'angolatura, ma non vogliamo giudicare. E l'accumulo nasce proprio dalla volontà di non giudicare” (Valeria Raimondi); in realtà la fotografia muore col montaggio, e il solo fatto di appoggiare l’estetica della post-produzione li rende consapevoli di questo: l’effetto di senso che producono è poco equivocabile, il giudizio c’è, senza soluzione. Il peso dell’essere inseriti come piccola realtà nel mondo contraddittorio, idiosincratico, frenastenico, si percepisce tutto nell’ultima scena, dove delegano la parola a piccoli nani da giardino; ma la stessa scena, nella sua sibillina realizzazione, mantiene la critica più forte dello spettacolo: il pubblico, che con il riso, durante tutto lo spettacolo, si è tirato fuori da quell’Italia raccontata sul palco, alla fine se ne scopre parte fondante nel bisogno di catalogare, ordinare, dare un etichetta anche al non senso. È un finale amaro, un finale a metà, che fa percepire in tutta la sua forza impellente la realtà di Made in Italy.
Matteo Vallorani
Babilonia Teatri Made in Italy Premio Scenario 2007 di e con Valeria Raimondi ed Enrico Castellani scene Babilonia Teatri/Gianni Volpe costumi Franca Piccoli luci e audio Ilaria Dalle Donne movimenti di scena Luca Scotton coproduzione Operaestate Festival Veneto con il sostegno di Viva Opera Circus/Teatro dell'Angelo

10.9.08

Ventimila immagini per il futuro

Anche quest’anno calca i palchi dei Teatri Invisibili la compagnia Synergie Teatrali, che come sempre propone una nuova sfida all’esigente pubblico; se l’anno scorso questa si traduceva nella lettura di alcune novelle del Decameron di Boccaccio, quest’anno diventa l’immersione nell’avventura di uno dei romanzi più celebri di Jules Verne: Ventimila leghe sotto i mari.
Se cambiano la tipologia di spettacolo, il pubblico di riferimento e i temi, tuttavia non cambiano l’esuberanza e l’eccentricità che ogni spettacolo di Stefano Artissunch porta con sé. Infatti, accomodatosi sulle poltrone, lo spettatore viene introdotto immediatamente nella storia da un’azione costruita su più livelli scenici, poiché la platea stessa è trasformata in un’appendice del palco (soluzione che per altro crea alcuni problemi per la visualizzazione completa dello spettacolo, ma allo stesso tempo ottima per sottolineare i diversi registri in scena). Dopo il battibecco tra due marinai (Stefano Artissunch e Alessandro Marinelli) sull’esistenza di un fantomatico mostro marino speronatore di navi, ci si immerge prima in una sorta di talk show che presenta uno dei personaggi principali, il professor Aronnax, studioso e ricercatore a Parigi (Alessandro Marinelli), e poi nella vera avventura, attraverso l’incontro con Ned Land (Alessia Bedini), baleniere professionista alla ricerca del mostro sulla “Abraham Lincoln”, la nave che dopo tre mesi di navigazione verrà affondata. Da qui in poi il racconto diventa quasi iconografico, fatto per immagini più che da parole, se non per brevi puntualizzazioni di dialoghi e poche frasi atte a far comprendere la filosofia e il fine comunicativo della storia. Il percorso immagini-fero è coadiuvato da strutture in metallo e teli di plastica che, inizialmente poste alla rinfusa, si trasformano nella poppa di una nave, in vele, in un palco del talk show o in una scatola per ombre cinesi. Particolari luci ad anello celesti, poste agli estremi del palco, disperdono luce come fari subacquei, creando un effetto - grazie al nero che predomina in scena e alla verticalità delle canne d’organo, erette sul fondo come ali argentate di un trono – che ricorda antichi antri bui, carichi di segreti e creature misteriose. Tutto ciò pian piano obera la scena, finché non ci ritroviamo all’interno del Nautilus, il celebre sommergibile frutto della genialità di Capitan Nemo (Stefano Artissunch), che tutti credevano un mostro feroce al pari di quello di Loch Ness,. Il bazar di oggetti che occlude la scena rende subito palesi le due visioni che i co-protagonisti hanno del Nautilus; se infatti il professor Aronnax vede il sottomarino come mezzo privilegiato di progresso umano e scientifico, nonché coronamento dei suoi sogni di scienziato, dall’altra parte per Ned Land rappresenta una meravigliosa prigione d’oro, attraente e claustrofobica. I personaggi si muovono abilmente in questa difficoltosa scenografia: si avvertono appena i continui cambi scena che segnano il percorso narrativo, facendoci percepire i simboli celati dietro a ciascuno dei tre personaggi, soprattutto per quanto riguarda Nemo, l’eroe nero proiettato verso l’indipendenza, alla ricerca disperata di una libertà totale che potrà trovare soltanto nella morte. Al termine dello spettacolo rimane la consapevolezza di aver assistito a una messa in scena che non comunica solo attraverso la parola, ma anche e soprattutto attraverso le immagini: visto che la società moderna spinge sempre più verso una comunicazione più condensata e diretta, quale miglior mezzo per un teatro che è rivolto soprattutto ai ragazzi e quindi al nostro futuro?
Carlo Benigni
Synergie teatrali
Ventimila leghe sotto i mari liberamente tratto da Jules Verne
adattamento di Stefano Artissunch e Alessandro Marinelli con Stefano Artissunch, Alessandro Marinelli, Alessia Bedini scenografia Pietro Cardarelli regia Stefano Artissunch organizzazione generale Danila Celani

8.9.08

Nel cuore del vulcano

Atto unico dello scrittore fermano Angelo Ferracuti, Comunista! riproduce efficacemente il microcosmo aziendale attraverso un’opera ad un tempo esilarante e dura, nella quale un ufficio risorse umane, in cui si svolge un grottesco colloquio d’assunzione, diventa il luogo d’elezione per esaminare il tema del lavoro nella società odierna. Immaginate l’azione distruttiva della lava, che annienta tutto ciò che incontra sul suo cammino. Luminosa, incandescente, infallibile. Immaginate un’azienda altrettanto potente, impeccabile e rapidissima, scintillante e agguerrita, un’azienda in crescita continua. Un’azienda il cui nome rimanda a esplosioni competitive, a colate ineguagliabili, a spettacolari eruttazioni, un fiume in piena di magmi bollenti: immaginate Vulcanica, l’Azienda. Immaginate di percorrerne i corridoi lucenti, di dirigervi verso gli uffici dei dirigenti, di osservare i mobili sobri, lineari, le piante in vaso; le suole delle vostre scarpe scivolano un po’ su quelle piastrelle troppo lisce, vi assale piano un vago senso di angoscia: c’è qualcosa di poco umano in tutta quella perfezione, ma proseguite. Immaginate ora di entrare nell’ufficio elegante di un indagatore, uno di quei temutissimi managers che si occupano di selezionare il personale; immaginate che questo ufficio sia la scena di uno spettacolo. Sembra anche a noi spettatori di essere entrati dalla porta, ci sembra di aver fatto lo stesso percorso dell’antropologo dall’animo gentile, l’ometto in completo marrone che fa ingresso negli edifici dell’azienda per sostenere il terribile interrogatorio al quale assistiamo. L’uomo, ancora giovane, una famiglia alle spalle, un lavoro perso da poco, curriculum invidiabile e talento a volontà, spera di ottenere un posto nella roboante azienda. Vulcanica, il gigante internazionale dal bruciante cuore italiano, cattolico e paternalista, lo attende a braccia aperte: l’untuoso indagatore non vede l’ora di spolpare un nuovo aspirante dipendente, “il solito comunista” sfaccendato e sognatore, pericolo mortale per la crescita illimitata dell’impresa. “Bisogna crescere, siamo costretti a crescere, il mercato è inclemente, caro mio... Crescere, crescere, crescere!” grida col volto congestionato, mentre alle sue spalle campeggia un Quarto Stato virtuale e mutante in cui il popolo di Pellizza da Volpedo è sostituito da una folla di funzionari rampanti, seguita dai fedeli sottoposti. Alessandro Perfetti mette in scena lo scontro tra i due uomini in un’azione che esplora molteplici registri ed esaspera la carica surreale che il testo contiene, potenziandone la capacità di riflettere su problematiche che vanno ben oltre le pareti di un ufficio. È un conflitto senza soluzione, una guerra implacabile fra due mondi opposti che precipitano insieme fino a toccare il fondo, in un percorso degenerativo che trova la sua conclusione solo nella sopraffazione totale dell’uno sull’altro. È una deflagrazione che si prepara lenta, suggerita dall’aumento progressivo di violenza nella parola e nel gesto, da una caricatura dei toni e delle ambientazioni luminose. La recitazione si adatta senza sforzo a queste dinamiche e colora mirabilmente il carattere dei due personaggi, nel crescendo iperbolico del dialogo. Piergiorgio Cinì, nei panni dell’odioso indagatore, mellifluo e brutale, arrogante e meschino, domina lo spazio con esilarante invadenza mimica e gestuale, in perfetto contrasto con il sottile gioco espressivo di Pierluigi Tortora, che disegna con abilità i più piccoli moti dell’animo dell’aspirante dipendente. Comunista! mette in scena il potere e le sue infinite declinazioni, in un’opera divertente e tragica che tocca a volte le corde dell’assurdo. Lo spettatore, sbalzato continuamente tra il reale e l’onirico, è catturato dal vortice dell’azione da cui viene totalmente risucchiato, fino al colpo di scena finale.
Alessandra Cava
Laboratorio Teatrale Re Nudo La Bottega del Teatro Comunista! con Piergiorgio Cinì e Pierluigi Tortora in voce Maria Libera Ranaudo, Riccardo Massacci, Stefano De Bernardin e Marco Cortesi interventi grafici e video di Alessandro Amaducci luci Massimo Massacci fonica Riccardo Massacci assistente alla regia Matteo Vallorani regia di Alessandro Perfetti produzione Provincia di Ascoli Piceno in collaborazione con AMAT

5.9.08

Perché la memoria è importante!

Quando la luce in platea è ancora piena, quando il mormorio del pubblico è ancora vivo e il buio del palco lascia intravedere soltanto la sagoma di una sedia, allora entra in scena Mario Perrotta: passa tra il pubblico, si presenta, il sorriso sulle labbra e un impeto appena frenato dallo spettacolo che sta per cominciare; dà le solite avvertenze di sala, parla del suo Italiani cìncali!, delle sue ricerche, dei viaggi da bambino, degli emigranti che ha visto con i suoi occhi; parla di sé: lui è e rimarrà per tutto lo spettacolo Mario Perrotta. La memoria infantile delle ore passate in treno, da Lecce a Bergamo, lo portano vicino a quei volti, a quelle voci d’emigranti che nel secondo dopoguerra lasciarono paese e famiglia con l’aiuto dello stato, per andare in Belgio, in Germania, in Svizzera, in Francia, per morirvi esplosi o soffocati; l’adulta consapevolezza lo spinge in quelle terre, verso quelle “storie, infinite, che reclamano ascolto”; così nel 2002 nasce il “Progetto cìncali”: una prima parte sui minatori in Belgio, la partenza, e una successiva su la turnàta degli italiani emigrati in Svizzera. Le ricerche durate un anno, di paese in paese attraverso il Sud Italia, oltre ad avergli consentito di leggere le lettere originali e i diari di quella gente, hanno prodotto centocinquanta ore di registrazioni di racconti; voci, volti e storie infinite, tutte diverse e tutte uguali, si ritrovano, condensate in un monologo di un’ora e mezzo, scritto da Perrotta stesso in collaborazione con Nicola Bonazzi. Si ritrovano tutte in un racconto diverso, in una storia inventata, ed emergono nel sapiente intreccio di fantasia e realtà. Perrotta parla di sé salendo sul palco, ci parla della Puglia: sia avvertono chiaramente la vicinanza e il debito d’espressione con la sua terra d’origine, ma al contempo emerge l’estraneità data dall’essere visto come “uomo del Nord”. Parla ancora, delle ricerche nel Salento, dei minatori, dell’importanza della memoria e lo spettacolo è già cominciato da un po’ quando d’improvviso eccolo diventare il postino del paese, Pinuccio: le luci sul palco si sono accese e cambiano colore, assecondando i cambi di personaggio. “Il postino conosce le storie di tutti gli emigranti del paese. Il postino ha memoria! E la memoria è importante, […]”. Il postino ha cultura e lo mostra sin da subito parlando di “longhibardi”, “angiolini” e “regonesi”, perché è la cultura che lo ha fatto rimanere al paese, lo ha “salvato” dall’espatrio, “ché so leggere e scrivere e anche far di conto e per questo m'hanno scelto di fare il postino”, ma al contempo questa cultura gli ha dato l’onere di leggere, censurando secondo la sua sensibilità, le lettere gonfie di disperazione dei mariti andati all’estero per portare soldi a casa; è la cultura ancora che gli dà la memoria e questo gli ha consentito di viaggiare più di tutti gli altri, di soffrire più di tutti gli altri, avendo in sé la vita di ciascuno. Il narratore lascia spazio a Pinuccio, tornando solo di rado come voce di una storia oggettiva (la luce fredda lo evidenzia) a far sì che la semplicità del postino non ci faccia dimenticare la profondità della sua figura. Il personaggio complesso racconta e si racconta, e le sue mille sfaccettature, di dolori, tristezze, euforie sono riflesse nel volto dell’attore, che presta il suo corpo; perché il corpo stesso è in fibrillazione, per quanto immobile, per quanto seduto, infatti vi è solo una sedia sul palco: Perrotta vi si siede all’inizio e non si alzerà fino agli applausi, nel frattempo le sue braccia in eterno movimento cullano il nostro sguardo, ci accompagnano in Belgio, spalancate, ci mostrano il paesaggio, mani che diventano roccia e carbone, diventano la famigerata vena 25, mani che dolci sfogliano le lettere, delicate carezzano le donne. Il pubblico è rapito dalla narrazione, incantato: l’immediatezza funziona, nonostante il gioco scenico sia palesato, merito del testo e della sua interpretazione da parte dell’attore. Tuttavia lo straniamento è parte indispensabile del lavoro: lui è e rimarrà per tutto lo spettacolo Mario Perrotta, torna la luce fredda a dircelo, perché al di là della fantasia è tutto vero; l’artista è garante di veridicità: con le sue storie di infanzia sui treni mostra l’esperienza della sua vita legata a queste “faccende”, parla di una memoria che gli appartiene; ma lui è Mario Perrotta, ce lo ha raccontato, ha studiato a Bologna, lì vive, allontanato da tempo dalle terre natie. “Signuria mi potrà confermare siccome che se non sbaglio mi sembra che venga dal Nord”: lui, per i protagonisti di questa storia, non è meno estraneo di noi; ciò nonostante la memoria non riguarda noi meno di lui; “E la memoria è importante, perché -…ne abbiamo sempre meno… - perché -…qualcuno l’avrà pure permesso quel boom economico… - perché -…l’Italia girava in Cinquecento e noi dormivano in otto in una stanza… - perché -…siamo stati venduti dallo Stato per un sacco di carbone… - perché -…mi vergogno di raccontare a mio figlio quello che siamo stati e come ci hanno trattati… - la memoria è importante”.
Matteo Vallorani
Compagnia del Teatro dell'Argine Italiani cìncali! Parte prima: minatori in Belgio di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta interpretato e diretto da Mario Perrotta voci amichevolmente registrate da Peppe Barra, Ferdinando Bruni, Ascanio Celestini, Laura Curino, Elio De Capitani

4.9.08

Possessiva atroce ossessione

L’ossessione del possesso, la necessità di dominio che raggiunge la patologia: Anna Cappelli ricerca l’autonomia materiale. Vestita da un candido pigiama entra in scena attaccata voracemente al suo cuscino, mentre un’infantile radio rosa a tracolla la colora di innocenza; Anna entra in scena piegata sulle sue cose, uniche a rimanere esclusivamente di sua proprietà fino alla fine dello spettacolo, unica appartenenza a fornirle sicurezza: Anna piegata sulle sue cose è piegata su se stessa. La fragilità di questo momento è rotta dall’invadenza di una canzonetta anni ’60 che trascina, spensierata, la protagonista nell’oblio. La dimenticanza è quella della vita quotidiana nelle città di provincia, : “Le storie che racconto riguardano sempre e soltanto gente banale, comunissima, possibilmente incline a diventare patetica, straziante […]. E mi piacciono quanto più sono ai margini; relegati, ma non in maniera vistosa (come barboni, criminali e pazzi) bensì in maniera sottile, indistinta. Ed infatti, vivono in quartieri della cultura metropolitana, in provincia, sepolti nella periferia” (Annibale Ruccello); l’oblio le consente di convivere con la padrona di casa ed i suoi gatti, l’aiuta nel rapporto con le colleghe, col suo uomo e con il resto della comunità, ma è lo stesso che le procura una profonda frattura dell’io, un dualismo caratteriale costante in tutto lo spettacolo: l’instabilità psicologica della protagonista la porta puntualmente a sacrificare un pezzo della sua “rispettabilità sociale” in vista di un possesso, del quale non sarà mai contenta, in un continuo altalenarsi di depressione ed euforia. Questa circolarità narrativa è appesantita dalla costruzione scenica che ripropone puntualmente alla fine di ogni “monologo” l’accensione della radio anni’60 a dare il ritmo al cambio d’abito o allo spostamento degli oggetti di scena. La dualità di Anna si espleta anche nei “dialoghi”, nei quali, grazie ad un’attrice sdoppiata, il pubblico conosce il detto e il non detto, l’interno e l’esterno: l’autocensura sistematica crea una tensione che esaspera il personaggio verso il grottesco, ma fornisce alla platea un ruolo privilegiato, un filo diretto con i pensieri della ragazza, che spinge ad assimilarsi a lei. Il pubblico “sta dalla sua parte”, per maggiore lucidità, per simpatia, per pietà; “Ma per una sorta di terrore a nutrire o a destare pietà mi piace cogliere [la gente banale e comune] in un momento estremo della loro esistenza, quando a prescindere dalle loro stesse intenzioni questi personaggi sono costretti a compiere una scelta importante, un gesto eroico o atroce. Per cui si trasformano in personaggi grotteschi o mostruosi, spesso odiosi e insopportabili, comunque sempre meglio che pietosi” (A.R.). La necessità patologica del possesso e l’ambiguità caratteriale, sintomi di un’epoca in cui il decadimento sociale ed individuale non ha spazi per esprimersi, ché l’esteriorità deve rimanere e rimane sempre semplice felice e rispettabile, permeano all’estremo Anna Cappelli portandola, in un finale mostruosamente grottesco ad uccidere e fagocitare l’amante che, dopo una convivenza di due anni era pronto ad abbandonarla; è lo sfogo di tutte le frustrazioni: divisa tra Tonino, l’amante, che l’aveva forzata ad un’emancipazione della quale non era convinta, e la comunità, che non ha mai accettato l’amore concubino, la necessità di possedere si risolve in tragicommedia, nel possesso fisico del metabolismo digestivo. La Ragnatela ha proposto un lavoro puntando con decisione sulla centralità della parola, una parola alla quale viene affidato il compito di evocare odori, persone e persino oggetti; la bravura della Ragni ha aiutato a supplire l’attrito prodotto da questa forzatura a teatro, ma quando l’artificiosità è più forte la finzione non funziona quanto dovrebbe.
Matteo Vallorani
La Ragnatela Anna Cappelli di Annibale Ruccello con Giulia Ragni regia Tommaso Benvenuti

3.9.08

Il morto che parla

Un attore è immobile sul palco, attende il pubblico in compagnia di un vecchio baule. Si spengono le luci in sala e la platea si ritrova sospesa, capovolta nei termini dell’attesa, quando si scopre al cospetto di una scena bloccata e muta, che tarda ad animarsi. Dopo alcuni minuti, d’improvviso, come un fantoccio messo in moto da una carica segreta, l’attore si accende e avanza. Stabilisce le regole del gioco teatrale, ci chiede uno sforzo d’immaginazione: “Questa è la narrazione documentaria delle avventure post-mortem del più bello degli italiani. Personaggi principali: io. Interpreti principali: io. Altri interpreti: basta”. Così si apre il primo appuntamento del 14° Incontro Nazionale dei Teatri Invisibili, rassegna inaugurata il 2 settembre scorso al Teatro dell’Arancio di Grottammare con Dux in scatola - Autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito, lavoro scritto, diretto e interpretato dal giovane artista romano Daniele Timpano, finalista del Premio Scenario 2005 in cui è stato selezionato come miglior spettacolo dalla Giuria Ombra. Un monologo fresco e acuto che vede l’attore lanciarsi in un viaggio mirabolante durato dodici anni: il viaggio in terra del defunto dittatore fascista, dal 1945 al 1957, da un contenitore all’altro, lungo un percorso tortuoso che va dall’esposizione del corpo a Piazzale Loreto alla tappa conclusiva nel cimitero di San Cassiano a Predappio. È Mussolini stesso, il duce un tempo icona di tronfia e massiccia integrità e fanatico salutismo, ora trasformato in cadaverino scombinato e pestifero, a guidarci in una storia dal dopoguerra ai giorni nostri, tra tombe trafugate, intrighi di convento e di partito, giornalisti immaginifici e idolatri neofascisti. Un Timpano in verticale, che non si siede mai e si agita sul posto, con movenze che ricordano il teatro di figura, ma anche (nel gesto e nel suono) la reiterazione nevrotica e stilizzata di certi videogames fuori moda, presta il proprio corpo e la propria voce al dittatore chiuso in scatola, nell’orizzontalità dell’inerte baule sulla scena. Con lui - ma sarebbe meglio dire attraverso di lui, attraverso lo sdoppiamento scenico che confonde corpo d’attore e corpo (morto) di personaggio - ci addentriamo nelle zone d’ombra della vicenda, su cui Timpano fa chiarezza con lampi di luce fugaci, dentro le trame scomposte di un resoconto il cui punto di vista è in costante movimento. Un monologo straniante che mescola le voci, mai strumentalizzate con l’intento di strizzar l’occhio a un immaginario di toni e di posture, che rinuncia al consenso facile, ma gode di una comicità tutta sua e di un’originale tecnica narrativa, giocata sul ritmo come una partitura musicale. Cos’è dunque questo Timpano se non uno strumento, un corpo cavo e sonante? Egli è il congegno attore, che sta in un tempo fuori e dentro se stesso, chiuso a sua volta nella scatola teatrale di cui è marionetta vivente e presente, nel luogo dove i morti parlano e i vivi stanno ad ascoltare. Il morto che parla, però, non è un morto qualsiasi: l’inconciliabilità (fisica, ideologica, temporale) tra l’interprete e il personaggio, marca - ed esaspera - l’alterità ontologica dello spazio scenico, spezzando il filo di quella rassicurante complicità che troppe volte a teatro s’annoda su se stesso. Dux in scatola ci tiene distanti, come distanti siamo noi (noi che guardiamo e Timpano che si fa guardare) da una storia nazionale che pare non ri-guardarci più, come fosse un romanzo appena chiuso. Eppure, a volte, il naso appuntito dell’attore si sporge a bucare la scatola con feroce ironia: «Io e voi siamo d’accordo, no? Non siamo come quei fascisti là fuori... Beh, troppo comodo! Dio, Patria, famiglia, Dante, Leopardi, D’Annunzio, Alfieri, Goldoni, Carducci, e l’enciclopedia Treccani, e le targhe commemorative, e l’altare della Patria, e il Milite Ignoto, e il Risorgimento, e Garibaldi... Siamo circondati da secoli di cultura reazionaria, papalina, paternale, aristocratica, retorica, destrofila e sessista. Ogni italiano dovrebbe gettare la maschera e dichiararsi francamente fascista! Ciò vale a dire reazionario, papalino, paternale, aristocratico, retorico, destrofilo e sessista...». Non c’è scampo, siamo noi quelli chiusi in scatola: Timpano, l’uomo piantato in scena, da una baule che resta chiuso tira fuori un bel pezzo di Storia e lo frantuma in terra, ai nostri piedi, minaccioso. Vale la pena lasciarsi scuotere le budella.
Alessandra Cava
Daniele Timpano Dux in scatola. Autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito uno spettacolo di e con Daniele Timpano collaborazione artistica Valentina Cannizzaro e Gabriele Linari disegno luci di Marco Fumarola foto di scena di Valerio Cruciani e Alessandra D'Innella drammaturgia e regia di Daniele Timpano Organizzazione di Maria Rita Parisi Una produzione di amnesiA vivacE In collaborazione con Rialto Santambrogio e UbuSettete - periodico di critica e cultura teatrale

1.9.08

InVisioni: sguardi sugli Invisibili

Oltre la scena, la sfida della memoria. Osservare, ipotizzare, testimoniare. È questo l’obiettivo di InVisioni, gruppo nato in occasione del 14° Incontro dei Teatri Invisibili, che si propone di offrire all’evento uno sguardo critico e indipendente sugli spettacoli in rassegna. Di seguito pubblichiamo le nostre recensioni, che nascono sempre da un dibattito, da uno scambio di prospettive, pongono le domande grazie alle quali tracciare un percorso attraverso l’opera, con la volontà di aprire al territorio piccoli spiragli sulla realtà teatrale contemporanea. InVisioni è un luogo distinto in cui conservare la memoria, rielaborare le impressioni, suggerire ipotesi di lettura. Un luogo per aprire gli sguardi, per allenare alla visione, con l’augurio di avvicinare sempre di più lo spettatore alla scena.