20.9.09

Diario di un rondista



5:38 P.M., via dell’olmo: Radunati, ormai una trentina, uomini e donne, forse di più, maggiorenni, adulti o anziani non fa differenza. Identificati dalla maglia, dalla scritta bianca che ci definisce, poi, secondo disponibilità: occhiali scuri, impenetrabile a specchio, stoffe di neri dai piedi in su; senza esagerare. Di vestiario sobrio, battezzati dal ministero, sacerdoti della sicurezza. Senza esagerare, ordinati ordinanti, osservatori volontari: non siamo mica fascisti, noi.
6:00 P.M., via XX Settembre: Partiti: a manipoli sparsi; è la legge che ci impone divisione, e non possiamo essere più di tre durante la ricognizione, e non possiamo essere iscritti a movimenti, o associazioni, o gruppi, e non possiamo intervenire direttamente. Limitati, così indeboliti, almeno nella forma. Tre, sei, nove; passo dal ritmo lento, serioso silenzio, ma gli occhi irrequieti corrono, dietro le lenti scure, gesti strozzati mettono i muscoli in tensione. Partiti.
6:13 P.M., piazza Giacomo Matteotti: Osservatori osservati, la gente butta l’occhio, senza incrociare lo sguardo, ferma la vista, la ritrae: penso alla paura forse, al timore generato dall’autorità. Vecchi a passeggio, per la messa pomeridiana, e il solito grassone sporco a richiedere pietà monetaria. “Scusate -la signora anziana si trascina dietro il marito- salve ragazzi, scusate, che vuol dire quello che avete scritto lì?” “La posso riprendere?” “Che fate una pubblicità?” “Siamo osservatori volontari, signora -la possiamo riprendere?- seguiamo il Decreto del Ministero degli Interni sulla sicurezza, osserviamo che… -posso riprenderla?- Signora non si sistemi, si faccia riprendere dal collega: se non ha niente da nascondere non ha ragione di preoccuparsi della telecamera” “Si, si! No, no! Faccia, faccia. Ho capito! Si, si, lo dicevano pure alla televisione. Ma son proprio contenta che finalmente qualcuno abbia pensato di fare questa bella cosa anche qui da noi: cioè una volta si usciva si stava meglio, si sapeva chi eravamo, eravamo noi; invece adesso co’ tutta sta gente nuova… capito no?! -e lui sorridente annuiva- Visto che bravi ragazzi. Bravi. Grazie. E buon lavoro”.
6:20 P.M., viale Secondo Moretti: Camminiamo tra la gente, nella distensione cronica di un sabato qualunque, rompiamo il gregge, lo controlliamo, squadriamo. Siamo solo nuclei di tre -e non più di tre- persone, tanti nuclei, una massa, una folla di nuclei. “È un film? – Sono impazziti! – Hai visto, la ronda? Finalmente – Ma voi dove vi incontrate? Cioè, vorrei partecipare, è una bella cosa – Ma siamo matti?! – Ai tempi miei ci stavano questi che giravano, e mica c’era tutta sta gente così… c’era più rispetto – È uno scherzo -  Ce l’avete un recapito? Quante volte alla settimana vi incontrate? – Mo che vogliono questi? – ci voleva qualcuno che facesse capire che non possono fare quello che gli pare – Ora non si scherza più”.
6:38 P.M., via Calatafimi: Un gruppo di teste rasate, ci sprona, ha apparecchiato un tavolo di volantini, ornato gli angoli di bandiere con la croce cerchiata, celtica di origine; animalisti poco più il là ci danno dei “fascisti”, vogliono allertare le persone con le grida metalliche del loro altoparlante. Ci colorano di politica, ci affidano una bandiera, ma il nostro non è un servizio politico: segnaliamo “eventi che possano arrecar danno alla sicurezza urbana, ovvero situazioni di disagio sociale”. Quegli sbandieratori, non lo sanno, sarebbero i primi a dover essere segnalati, ché lo gridano il loro disagio, ovvero urlano l’incomodo per i bisogni che considerano necessari, socialmente parlando. Il nostro è il servizio sociale che più si allontana dal politico.
6:45 P.M., via Montebello: La formula legale aumenta esponenzialmente la nostra possibilità di segnalazione, in sostanza il nostro sguardo è vero giudice di ciò che deve e non deve accadere. Sgombrare la strada dal disagio è, quindi, sgombrarla dal pericolo: possiamo/dobbiamo allontanare chi mostra di non essere agiato, non essere a proprio agio nella situazione in cui è inserito, ché in esso si mostrerà in maggior misura la possibilità di pericolo. A dimostrarcelo due ragazze dai capelli troppo corti, dagli abiti troppo larghi, fatti di pezza che, col loro giocherellare di birilli, attorniate da bambini, non sembrano preoccuparsi della incolumità che mettono in pericolo. Devono essere allontanate. I birilli volano, vengono fatti rimbalzare sopra le teste pronte ad essere colpite al primo fallo. Ci avviciniamo, pacati, le invitiamo a smettere. Ne nasce una discussione: le ragazze, dicono, non facevano niente di male, erano lì e facevano divertire i bambini; rifiutano il nostro aiuto, vogliono un referente con cui lamentarsi, ma il pericolo è innegabile. Cercano di trattenerle. Agiscono come incoscienti, non sanno, non capiscono, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a difendere la loro vita, di qualcuno che abbia come obiettivo la loro sicurezza: il nostro è alto altruismo. Un signore con le stampelle (quale altro chiaro segno che non sa badarsi da solo, disagiato) vuole a tutti costi mandarci via, far restare quelle due clown. Sopravvengono le forze dell’ordine, immobili, fino a quel momento, appoggiate al cruscotto della pattuglia parcheggiata. I vigili sanno chi siamo. Le ragazze vanno via, con la loro valigia di armi improprie.
7:00, via XX Settembre: Al ritorno le strade son più sgombre, a parte qualche grassa nostalgica comunista che ci sbraita dietro. Marciamo verso il crepuscolo occidentale, sotto un vecchio sole che sta per sparire, la tranquilla solitudine delle vie rimbomba del battito dei passi che regolarizza il respiro, ma il silenzio prevale, suggello del nostro operato. Non penso.





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Nel momento in cui un’azione è posta alla provocazione, chi agisce è pronto a non avere aspettative, sa che le reazioni possono essere delle più disparate, non se ne preoccupa, ché la sua posizione gli permette tutto: lui può andare oltre, superare le righe, pungolare all’estremo. Ma l’indignazione del pubblico è essenziale: ad ogni provocazione dovrebbe corrispondere una reazione, qualunque essa sia. Il problema nasce quando un atto critico, così impostato, viene accolto positivamente, e l’esasperazione delle assurdità viene accettata come realtà ammissibile. Il risultato è una condanna al silenzio, tutto resta lineare; tale paludosa chiusura allo scambio smentisce le visioni ottimistiche (fiduciose o prudenti) di chi preferisce, avrebbe preferito, passare sotto silenzio l’argomento “ronde”, per non “aizzare il can che dorme”, nell’attesa di una digestione sociale automatica, fino all’espulsione. Al contrario, molte delle reazioni che abbiamo raccolto non facevano che accusare un ritardo: dove siamo stati accolti come rondisti-salvatori, ciò contro cui ci stavamo scagliando, era già stato assorbito e trattenuto. L’assegnazione di un colore politico all’istituzione legale delle “associazioni di osservatori volontari” è servita solo a sviare l’attenzione, a deviare facilmente l’argomento: ciò che viene pubblicizzato come manovra per rasserenare quella più o meno naturale (ma comunque zotica) diffidenza verso l’estraneo, implica, se non proprio un’istituzionalizzazione di un discredito verso il governo (democratico o no), almeno l’ammissione di un’insufficienza sociale dello stato. La formula della “segnalazione del disagio sociale”, ironicamente ribaltata dal rondista di cui sopra in una denuncia nei confronti di chi manifesta il suo malcontento, porta ugualmente ad un allontanamento dalla polis, a favore di un’amministrazione più arbitrariamente elitaria. È questa gestione dello spazio pubblico, della società, basata sulla rudimentale (e un po’ mafiosa) concezione del “ci pensiamo noi”, a negare, poi, una qualsiasi convivenza, tanto con l’alieno quanto col dissidente. Il conforme troneggia, e i nostri non possono essere protetti da chi è lontano e tende (dovrebbe) a tutelare tutti, ci riguardiamo noi (dove questo pronome sta sempre ad indicare un gruppo oligarchicamente scelto): “una volta si sapeva chi eravamo, eravamo noi”, gerontocraticamente scelto. Ad intaccare tale levigato indiscriminato, è stato scagliato lo scalpello della nostra provocazione, ma, da rondista, me lo son sentito rimbalzare addosso; o forse no: le voci raccolte da chi ci girava intorno facendo volantinaggio, le telefonate ininterrotte ai vigili, alla polizia in ricerca di una qualche spiegazione, ci confidano che una crepa c’è stata, che lo sdegno è salito. Ma il sostegno più grande è venuto, ignaro, da un carabiniere che, irritato, ci ha salutati accusando: “Se il vostro intento era quello di provocar subbuglio, discussione, disordine, ci siete riusciti!”.



Matteo Vallorani

Laboratorio Teatrale Re Nudo
Ronda Anomala 


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